Sto qui seduta in riva al fiume. Aspetto i cadaveri che mi hanno promesso. Quelli dei miei nemici.
Non arrivano.
Il più recente mi ha soffiato il lavoro. Aspettavo la chiamata per ultimare l’accordo. Il tipo non chiamava ma io aspettavo. Perché doveva chiamare lui, no? Perché chiamare io se l’accordo era diverso? E poi quell altro ha chiamato, ha saputo da conoscenze comuni, ha telefonato e in cinque minuti il loro accordo era fatto.
La prima invece risale alla mia infanzia. Era la mia torta di compleanno, e la fetta in più spettava a me. E invece ecco quella smorfiosa bionda a fare i sorrisoni a mia mamma, e puf! La mia bella fetta di torta farcita di panna e fragole è sparita. Ho sempre detestato quella bambina, anche quando è cresciuta e rimaneva snella mentre io mettevo su i chili dell’adolescenza.
In ordine sparso a rovinare il clima sereno della mia vita sono seguiti altri che aspetto fiduciosa di vedere passare a faccia in giù nelle acque lente e profonde della mia vendetta passiva.
C’era quello che mi piaceva, mi piaceva tanto. Mi piaceva di mattina, di pomeriggio, di sera, nelle ore diurne e quelle notturne, nei fine settimana e nelle giornate feriali. Purtroppo a lui piacevano anche altre, e io allora per fargli capire cosa stava per perdere mi sono fatta piacere anche altri di mattina, di pomeriggio e così via. Peggio ancora, ho sopportato lui, mi sono fatta zerbino.
E le donne zerbino con una decina di fidanzati fanno fatica a piacere per davvero.
Passerà senz’altro quella tipa che aveva tutto. Aveva il fidanzato perfetto mentre io facevo lo zerbino, il lavoro perfetto mentre io leggevo gli annunci sul giornale, una taglia 42 mentre io buttavo la bilancia nel bidone della discarica, il rossetto sempre in ordine anche quando mangiava (sì, mangiava, e mai un kilo di troppo). Tutto a lei e niente a me? Ma dico, poi vogliono che amiamo il prossimo come noi stessi. Ma va là.
Sarà forse a faccia in su quello insopportabile che sorrideva sempre, quello che mi ha fatto donare i soldi che volevo tenere all’associazione per bambini ammalati e poi fare dei lavori per loro senza paga. Ma vi sembra giusto? Mi ha praticamente obbligata, chiedendomi la cosa davanti a un tizio che mi piaceva tanto e da chi in più speravo di farmi dare un lavoro. Come dire di no?
Ora che ci penso anche quel tizio lì dovrebbe passare tra poco. Ero in gran forma in quel periodo e lui sembrava non notare nulla. Andavo in palestra, andavo dall’estetista, ero curata in ogni aspetto e anche se lo dico io, proprio una bella tusa. Decisamente la più bella del gruppo, non è falsa modestia, era ovvio. E lui, niente. Si è pigliato quella segretaria modesta e anonima, una nullità.
Sto qui e aspetto i miei nemici.
Ma andate a vedere che sarò io a dover passare, la mia peggiore nemica.
Wednesday, April 15, 2009
Wednesday, March 25, 2009
Viola
I tuoi colori ormai sono viola, giallo, un po’ di nero e un po’ di bianco. Ma principalmente viola. Eliana viola. Il bianco era già tuo in vita, ma i capelli ossigenati magari erano più in ordine. Le settimane nel bosco non hanno giovato. Ma io riesco a immaginarli. Quelli di Marilyn. Ti facevano da nuvola intorno alla faccia.
Gli altri colori non so, forse. Il viola del livido fresco, il giallo di quello vecchio, non so se avevi i lividi. Magari quando non portavi a casa abbastanza bigliettoni a fine serata. Perché so che mestiere facevi Eliana, non c’è altro modo per finire in un bosco non cercata e trovata solo per caso.
Ma non ti giudico. Inerme e senza difesa allora come sei adesso. Ti ho chiamato Eliana, ma magari presto verrà qualcuno dalla questura e mi dirà che ti chiamavi Olga, o Tatiana. Russa, rumena, ucraina, forse italiana.
Ti piace il nome Eliana? Sono qui da solo, sai. Gli altri non vogliono, verranno solo quando c’è da portarti di là, nella sala del dottore. Non ti farà del male, Eliana, non ti preoccupare. Ti metterà le mani addosso e ti squarterà un po’, ma è per te, per aiutarti. Le sue sono carezze, un dialogo. Non puoi raccontarci cosa ti hanno fatto, ma lui saprà dirci cos’è successo Eli, ascolterà il tuo corpo.
Noi due siamo gli unici a chi non fai senso, noi vediamo oltre. Le tue gambe ora saranno viole, ma io vedo come sono ancora belle, lunghe e snelle. Troppo belle per stare a fianco di una strada lungo un bosco-discarica. Le tue mani ormai sono nere, ma io vedo la loro grazia. Mani che dovevano accarezzare una faccia amata, non fare cose oscene per dei bigliettoni. La tua faccia non la leggo bene Eli, quanti anni hai? Neanche trenta, vero? Occhi spalancati, sorpresi, occhi che hanno visto di tutti i colori, ormai sfere gialle che fuoriescono dai loro orbiti. Troppo scioccati dalla vita per chiudersi, vero? Non ti preoccupare Eli, ho visto abbastanza occhi vivi per sapere che i tuoi, che ora fanno abbassare lo sguardo persino di quelli della scientifica, erano bellissimi.
Vorrei chiuderti la bocca, Eliana, per evitare che ti casca la lingua. E’ sgraziata, quella cosa, e mi dispiace. Vorrei ricomporla per il dottore. Ma non ti preoccupare, lui ti guarderà in bocca, come dal dentista, non ti farà male, e poi mi lascerà chiuderla. Sa che ci tengo a curarti, a curare tutti voi. Lui è una brava persona, mi lascia prendermi cura di voi, che gli altri a volte non vogliono.
Viola.
Violata.
Violentata.
Dormi Eliana, ti curo io.
Dormi Eliana, non ti lascerò sola.
Gli altri colori non so, forse. Il viola del livido fresco, il giallo di quello vecchio, non so se avevi i lividi. Magari quando non portavi a casa abbastanza bigliettoni a fine serata. Perché so che mestiere facevi Eliana, non c’è altro modo per finire in un bosco non cercata e trovata solo per caso.
Ma non ti giudico. Inerme e senza difesa allora come sei adesso. Ti ho chiamato Eliana, ma magari presto verrà qualcuno dalla questura e mi dirà che ti chiamavi Olga, o Tatiana. Russa, rumena, ucraina, forse italiana.
Ti piace il nome Eliana? Sono qui da solo, sai. Gli altri non vogliono, verranno solo quando c’è da portarti di là, nella sala del dottore. Non ti farà del male, Eliana, non ti preoccupare. Ti metterà le mani addosso e ti squarterà un po’, ma è per te, per aiutarti. Le sue sono carezze, un dialogo. Non puoi raccontarci cosa ti hanno fatto, ma lui saprà dirci cos’è successo Eli, ascolterà il tuo corpo.
Noi due siamo gli unici a chi non fai senso, noi vediamo oltre. Le tue gambe ora saranno viole, ma io vedo come sono ancora belle, lunghe e snelle. Troppo belle per stare a fianco di una strada lungo un bosco-discarica. Le tue mani ormai sono nere, ma io vedo la loro grazia. Mani che dovevano accarezzare una faccia amata, non fare cose oscene per dei bigliettoni. La tua faccia non la leggo bene Eli, quanti anni hai? Neanche trenta, vero? Occhi spalancati, sorpresi, occhi che hanno visto di tutti i colori, ormai sfere gialle che fuoriescono dai loro orbiti. Troppo scioccati dalla vita per chiudersi, vero? Non ti preoccupare Eli, ho visto abbastanza occhi vivi per sapere che i tuoi, che ora fanno abbassare lo sguardo persino di quelli della scientifica, erano bellissimi.
Vorrei chiuderti la bocca, Eliana, per evitare che ti casca la lingua. E’ sgraziata, quella cosa, e mi dispiace. Vorrei ricomporla per il dottore. Ma non ti preoccupare, lui ti guarderà in bocca, come dal dentista, non ti farà male, e poi mi lascerà chiuderla. Sa che ci tengo a curarti, a curare tutti voi. Lui è una brava persona, mi lascia prendermi cura di voi, che gli altri a volte non vogliono.
Viola.
Violata.
Violentata.
Dormi Eliana, ti curo io.
Dormi Eliana, non ti lascerò sola.
Monday, January 5, 2009
Pensieri di un vecchio e irritato piantone
Io sono un sopravvissuto. Credo perché significo qualcosa. Per quelle irritanti, micidiali creature che sostano sotto di me, pare che io abbia un senso.
Devono cercare del senso in tutto, tutto ciò che ha già un senso semplicemente perché è. In questo mondo, nulla è apparso per caso. Ogni cosa c’entra con ogni altra cosa, ogni cosa è causa e effetto, catalizzatore e risultato.
Ma quegli esseri, mobili nello spazio e brevi nel tempo come noi non lo siamo, ci sterminano.
Io no, mi hanno dato persino un nome: il piantone.
Sentimento?
Sentimentalismo.
Non hanno esitato ad abbattere il gelso degli appuntamenti a Daverio; il tiglio della piazza di Casale Litta è stato tirato giù perché il loro puzzolente rumoroso mostruoso pullman non riusciva a fare manovra per tornare indietro. Fino a pochissimo fa quella nuda, brutta piazza è rimasta calva. La sua vita, il suo colore, il suo vigore finiti anni fa in qualche stufa.
Io no, e ce l’ha fatta anche la camelia che sta un po’ in là, perché sta in fondo a un giardino privato, non blocca i pullman e non è terreno agricolo. Il cedro, beh, finisci su un libro e sei un mito. Ora il cedro è recintato. E’ diventato un albero ermetico.
Solo.
Natura morta.
Poi ogni tanto si pentono.
L’albero gelso è stato ripiantato da qualche buon anima. E’ venuto uno di loro dipinto di verde e ha detto delle cose, cose giuste, condivisibili da noi nel nostro lungo e lento ponderare. Ogni tanto sorprendono.
Nella piazza di Casale Litta c’è un infante, appena staccato dal ramo madre, attaccato a un bastone per aiutarlo a reggersi. I primi passi nel vento ancora non riesce a farli.
Siamo alberi di seconda generazione, cresciamo in due metri quadrati di terreno confinati tra pietre “decorative”. Siamo stati partoriti da loro. Non cresciamo nella congrega dei nostri simili, non sussurriamo i messaggi attraverso la rete dei rami e ramoscelli, il bosco per noi è misterioso, atavico, un ricordo nella nostra corteccia che ogni tanto fluttua davanti a noi ma che non riusciamo mai del tutto ad afferrare.
Il ciliegio selvatico di Casale Litta, piantata dal vento e cresciuto dalla pioggia e dal sole, è stato abbattuto perché poteva cadere sul tetto di una casa che ora giace dove hanno strappato le ultime viti. Sarebbe caduta prima la loro miserabile confezione di mattone che non l’albero.
Poveri illusi, credono di tenerci sotto controllo.
Poveri illusi, noi c’eravamo prima di loro, parlavamo al vento e parliamo ancora a chi ci sa ascoltare, e quando noi staremo zitti, il nostro silenzio sarà anche il loro.
E quando noi staremo zitti, li avremo abbattuti tutti.
"Il piantone" sorge maestoso a metà di via Veratti, Varese
Devono cercare del senso in tutto, tutto ciò che ha già un senso semplicemente perché è. In questo mondo, nulla è apparso per caso. Ogni cosa c’entra con ogni altra cosa, ogni cosa è causa e effetto, catalizzatore e risultato.
Ma quegli esseri, mobili nello spazio e brevi nel tempo come noi non lo siamo, ci sterminano.
Io no, mi hanno dato persino un nome: il piantone.
Sentimento?
Sentimentalismo.
Non hanno esitato ad abbattere il gelso degli appuntamenti a Daverio; il tiglio della piazza di Casale Litta è stato tirato giù perché il loro puzzolente rumoroso mostruoso pullman non riusciva a fare manovra per tornare indietro. Fino a pochissimo fa quella nuda, brutta piazza è rimasta calva. La sua vita, il suo colore, il suo vigore finiti anni fa in qualche stufa.
Io no, e ce l’ha fatta anche la camelia che sta un po’ in là, perché sta in fondo a un giardino privato, non blocca i pullman e non è terreno agricolo. Il cedro, beh, finisci su un libro e sei un mito. Ora il cedro è recintato. E’ diventato un albero ermetico.
Solo.
Natura morta.
Poi ogni tanto si pentono.
L’albero gelso è stato ripiantato da qualche buon anima. E’ venuto uno di loro dipinto di verde e ha detto delle cose, cose giuste, condivisibili da noi nel nostro lungo e lento ponderare. Ogni tanto sorprendono.
Nella piazza di Casale Litta c’è un infante, appena staccato dal ramo madre, attaccato a un bastone per aiutarlo a reggersi. I primi passi nel vento ancora non riesce a farli.
Siamo alberi di seconda generazione, cresciamo in due metri quadrati di terreno confinati tra pietre “decorative”. Siamo stati partoriti da loro. Non cresciamo nella congrega dei nostri simili, non sussurriamo i messaggi attraverso la rete dei rami e ramoscelli, il bosco per noi è misterioso, atavico, un ricordo nella nostra corteccia che ogni tanto fluttua davanti a noi ma che non riusciamo mai del tutto ad afferrare.
Il ciliegio selvatico di Casale Litta, piantata dal vento e cresciuto dalla pioggia e dal sole, è stato abbattuto perché poteva cadere sul tetto di una casa che ora giace dove hanno strappato le ultime viti. Sarebbe caduta prima la loro miserabile confezione di mattone che non l’albero.
Poveri illusi, credono di tenerci sotto controllo.
Poveri illusi, noi c’eravamo prima di loro, parlavamo al vento e parliamo ancora a chi ci sa ascoltare, e quando noi staremo zitti, il nostro silenzio sarà anche il loro.
E quando noi staremo zitti, li avremo abbattuti tutti.
"Il piantone" sorge maestoso a metà di via Veratti, Varese
Sunday, December 7, 2008
Pranzo di Natale
Suonò il campanello.
“Ma buongiorno!” squillò la Signora Angela. “Entri! Benvenuto nella nostra modesta casa.”
Il Signor Andrea, che di cognome faceva raramente, entrò. Le sue scarpe con suole in gomma consumata facevano rumore sul parquet cerato. La Signora Angela notò che non teneva il capello attorcigliato tra le mani come i poveri che aveva visto nei fiction. Lo pregò di seguirla. Entrarono in una sala da pranzo, con lungo tavolo imbandito per le feste. Rosso, bianco, oro, cristallo, argento, nastri, fiocchi, angioletti in carta, centro tavola di gusto ineccepibile.
C’erano altre dieci persone in piedi in vari angoli della stanza rettangolare, che prendeva luce da una portafinestra. Non si vedeva il giardino per via delle tende di merletto di Burano.
“Carissimi amici,” strillò la Signora Angela, “è arrivato nostro nuovo amico… eh…”
“Andrea.”
“Oh, caro Signor Andrea, la prego, si sieda. Qui, accanto a me. Adesso le presento tutti i suoi nuovi amici. Ma non è simpatica questa idea?”
Il pranzo durò quattro ore.
La Signora Angela si sedeva raramente, nonostante la presenza della cuoca filippina e sua cugina, cooptata come cameriera per Natale. Era importante che i presepi in pasta sfoglia fossero disposti correttamente su ogni piatto, che i gamberi fossero di numero identico per tutti, che la salsina era disposta al fianco destro del pesce, che il tacchino era presentato con un numero preciso di fette di patata, e che i piselli non uscissero dai carciofi mentre erano serviti. Il sorbetto doveva essere servito toccando solo il gambo del bicchiere per non rovinare l’effetto ghiaccio sui bicchieri appena tolti dal freezer, e la fetta di torta natalizia quadrata servita con la punta in su, a rombo.
E così fu.
Tra una portata e l’altra, a turno ognuno faceva una simpatica domanda al Signor Andrea per farlo sentire a casa sua, in un posto semplice, di gente tranquilla.
“Dov’è nato?”
“Da dove viene?”
“Ha lavorato?”
“Famiglia?”
“Quali libri legge?”
“Preferisce investire in azioni o obbligazioni o ha un portfolio misto?”
A fine pasto, sul rintocco delle diciotto, il Signor Andrea ringraziò e se ne andò.
“Beh, non era male. Siamo stati bravi ad aderire all’iniziativa invita un senza tetto a pranzo, non pensate?” La Signora Angela accese una candela mangia odore dove poco prima era seduto il Signor Andrea. Si fermò un istante, si guardò in giro. “Ma santa polenta! Mi ha fregato il cucchiaino d’argento!”
Il Signor Andrea accese un mozzicone di sigaretta che trovò per terra. Girò l’angolo. Si fermò un istante, si guardò in giro.
“Ma cazzo! Mi hanno fregato la scatola!”
“Ma buongiorno!” squillò la Signora Angela. “Entri! Benvenuto nella nostra modesta casa.”
Il Signor Andrea, che di cognome faceva raramente, entrò. Le sue scarpe con suole in gomma consumata facevano rumore sul parquet cerato. La Signora Angela notò che non teneva il capello attorcigliato tra le mani come i poveri che aveva visto nei fiction. Lo pregò di seguirla. Entrarono in una sala da pranzo, con lungo tavolo imbandito per le feste. Rosso, bianco, oro, cristallo, argento, nastri, fiocchi, angioletti in carta, centro tavola di gusto ineccepibile.
C’erano altre dieci persone in piedi in vari angoli della stanza rettangolare, che prendeva luce da una portafinestra. Non si vedeva il giardino per via delle tende di merletto di Burano.
“Carissimi amici,” strillò la Signora Angela, “è arrivato nostro nuovo amico… eh…”
“Andrea.”
“Oh, caro Signor Andrea, la prego, si sieda. Qui, accanto a me. Adesso le presento tutti i suoi nuovi amici. Ma non è simpatica questa idea?”
Il pranzo durò quattro ore.
La Signora Angela si sedeva raramente, nonostante la presenza della cuoca filippina e sua cugina, cooptata come cameriera per Natale. Era importante che i presepi in pasta sfoglia fossero disposti correttamente su ogni piatto, che i gamberi fossero di numero identico per tutti, che la salsina era disposta al fianco destro del pesce, che il tacchino era presentato con un numero preciso di fette di patata, e che i piselli non uscissero dai carciofi mentre erano serviti. Il sorbetto doveva essere servito toccando solo il gambo del bicchiere per non rovinare l’effetto ghiaccio sui bicchieri appena tolti dal freezer, e la fetta di torta natalizia quadrata servita con la punta in su, a rombo.
E così fu.
Tra una portata e l’altra, a turno ognuno faceva una simpatica domanda al Signor Andrea per farlo sentire a casa sua, in un posto semplice, di gente tranquilla.
“Dov’è nato?”
“Da dove viene?”
“Ha lavorato?”
“Famiglia?”
“Quali libri legge?”
“Preferisce investire in azioni o obbligazioni o ha un portfolio misto?”
A fine pasto, sul rintocco delle diciotto, il Signor Andrea ringraziò e se ne andò.
“Beh, non era male. Siamo stati bravi ad aderire all’iniziativa invita un senza tetto a pranzo, non pensate?” La Signora Angela accese una candela mangia odore dove poco prima era seduto il Signor Andrea. Si fermò un istante, si guardò in giro. “Ma santa polenta! Mi ha fregato il cucchiaino d’argento!”
Il Signor Andrea accese un mozzicone di sigaretta che trovò per terra. Girò l’angolo. Si fermò un istante, si guardò in giro.
“Ma cazzo! Mi hanno fregato la scatola!”
Wednesday, December 3, 2008
Christmas Past
Il nostro, all’epoca, i primi anni settanta, non era ancora un crimine ecologico. Andare nei boschi innevati sotto natale a cercare un pino, “il” pino, era ancora un atto retto dalla natura, un atto antico, ancestrale, atavico.
Mio padre non parlava. Cercava.
C’è un vecchio cantico di natale in inglese che celebra il buon re cecoslovacco Wenceslau: a Santo Stefano guarda fuori, e si accorge di un poveraccio infreddolito nella neve. Esce, pieno di buoni intenti, e senza dubbio un principesco pasto serale, e gli porta dei doni. Dietro di lui, fatica un piccolo paggetto. Il tenero re lo fa camminare mettendo i suoi piedini dentro le impronte reali.
Io, nel bosco dei pini nel tramonto scozzese, non mi sono persa semplicemente perché amavo quel cantico. I piedi di mio padre erano grandi, e io ero presa nel mio ruolo di paggio al seguito del re. I piedi di mio padre mi proteggevano contro ogni male, contro gli elfi, gli spiriti, le fate che mi avrebbero rapita, lasciando a mio padre un changeling, una bambina fata. Ma mio padre era più forte di loro, era enorme, e soprattutto aveva dei possenti stivali di gomma che lasciavano delle impronte importanti.
Senza quelle impronte stile re Wenceslau io mi sarei persa. Perché io possedevo una cosa unica. Una cosa incredibile. Io possedevo un paio di stivali di gomma arancione (e fin qui vi concedo il vostro non-stupore) con delle suole stampate che lasciavano sulla neve le impronte di sei tipi di uccellino. Nessun altro aveva stivali simili, e nonostante le mie ricerche, non li ho mai più trovati.
Mio padre riconosceva subito l’albero.
Al ritorno, lo trascinava, questa volta chiacchierando, raccontando di come lo avremo messo in un vaso, come lo avremo decorato. Io facevo finta di aiutare, tirando su la punta con la massima cura: la punta è fondamentale per un albero di natale. Mio padre mi lasciava fare, sapendo che reggevo invece ben poco. E io sapevo che sapeva, e mi faceva fare per gentilezza, e mi scoppiava il cuore di amore. E lui sapeva che io sapevo che sapeva, e gli scoppiava il cuore per amore. Questo però l’ho capito solo tanti anni dopo, d’estate, quando ormai ero donna, e da una stanza all’altra i nostri sguardi si sono incontrati.
Mia madre mi chiama ogni anno quando ha finito di fare l’albero, ormai un albero commerciale, ecologico, non si va più nei boschi. Io chiudo gli occhi. Cammino intorno all’albero. Piazzo i miei piedini in impronte grandi. Respiro la pulizia della neve del bosco, sento il bruciore del freddo crepuscolare. Mi sento piccola. Cerco la mano di mio padre. E la trovo. Sempre.
Mio padre non parlava. Cercava.
C’è un vecchio cantico di natale in inglese che celebra il buon re cecoslovacco Wenceslau: a Santo Stefano guarda fuori, e si accorge di un poveraccio infreddolito nella neve. Esce, pieno di buoni intenti, e senza dubbio un principesco pasto serale, e gli porta dei doni. Dietro di lui, fatica un piccolo paggetto. Il tenero re lo fa camminare mettendo i suoi piedini dentro le impronte reali.
Io, nel bosco dei pini nel tramonto scozzese, non mi sono persa semplicemente perché amavo quel cantico. I piedi di mio padre erano grandi, e io ero presa nel mio ruolo di paggio al seguito del re. I piedi di mio padre mi proteggevano contro ogni male, contro gli elfi, gli spiriti, le fate che mi avrebbero rapita, lasciando a mio padre un changeling, una bambina fata. Ma mio padre era più forte di loro, era enorme, e soprattutto aveva dei possenti stivali di gomma che lasciavano delle impronte importanti.
Senza quelle impronte stile re Wenceslau io mi sarei persa. Perché io possedevo una cosa unica. Una cosa incredibile. Io possedevo un paio di stivali di gomma arancione (e fin qui vi concedo il vostro non-stupore) con delle suole stampate che lasciavano sulla neve le impronte di sei tipi di uccellino. Nessun altro aveva stivali simili, e nonostante le mie ricerche, non li ho mai più trovati.
Mio padre riconosceva subito l’albero.
Al ritorno, lo trascinava, questa volta chiacchierando, raccontando di come lo avremo messo in un vaso, come lo avremo decorato. Io facevo finta di aiutare, tirando su la punta con la massima cura: la punta è fondamentale per un albero di natale. Mio padre mi lasciava fare, sapendo che reggevo invece ben poco. E io sapevo che sapeva, e mi faceva fare per gentilezza, e mi scoppiava il cuore di amore. E lui sapeva che io sapevo che sapeva, e gli scoppiava il cuore per amore. Questo però l’ho capito solo tanti anni dopo, d’estate, quando ormai ero donna, e da una stanza all’altra i nostri sguardi si sono incontrati.
Mia madre mi chiama ogni anno quando ha finito di fare l’albero, ormai un albero commerciale, ecologico, non si va più nei boschi. Io chiudo gli occhi. Cammino intorno all’albero. Piazzo i miei piedini in impronte grandi. Respiro la pulizia della neve del bosco, sento il bruciore del freddo crepuscolare. Mi sento piccola. Cerco la mano di mio padre. E la trovo. Sempre.
Monday, January 14, 2008
La Donna del Lago
La Donna del Lago, ma si può? Che ruolo stupido. Sembro una bomboniera. Ma perché non potevo fare lo Spirito della Luce? Fissò sconsolata le scarpette d’argento.
- Aha, e con questa spada salverò il regno! Grnf! BUM.
Risate. Quella scena funziona, una soddisfazione, l’aveva scritta lei. Ai bambini piaceva la figura del vecchio re rimbambito che inciampava e cadeva ogni 30 secondi. A questo punto ancora poco e poi in scena. Meno male, faceva freddo.
Si guardò intorno. Che posto orrendo per la prima. Una vecchia palestra anni ’60 costruita in fretta e furia con i peggiori materiali possibili, ora una triste e squallida scatola in una triste e squallida cittadina dell’hinterland milanese.
Si alzò e cominciò a sgranchirsi le gambe, non poteva mica strapparsi un muscolo con quel salto che doveva fare. Guardò irritata la spumeggiante gonna celeste e cercò di lisciarla, di farla sembrare più piatta e stretta possibile.
Avrebbe adorato questo vestito a 6 anni. Avrebbe dato ogni indumento del suo guardaroba per possedere questa magnifica celebrazione di fiocchetti e merletti. L’avrebbe amato così tanto da sentirsi male. Sua madre avrebbe potuto toglierglielo soltanto dopo che si fosse addormentata.
Ma a 40 anni, no.
Sbirciò dalla quinta e vide una fila di bambini seduti per terra a gambe incrociate. I loro visi erano pallidi, ma gli occhi scintillavano, le bocche erano aperte in grossi sorrisi a tutta dentatura e ridevano di cuore. Non poté trattenersi, sorrise. Nonostante lo stupido irritante costume da Signora del Lago, sorrise.
- Aha! Lurido mascalzone! Adesso ti uccido! Il collega attaccò un albero in cartapesta con la spada.
- È’ un albero! gridarono i bambini, è un albero, non un uomo!
La felicità è bambina, pensò. No, non è bambina. Sì ricordò una frase letta da qualche parte. La felicità è l’accettazione dei propri limiti. Sapeva perfettamente che non avrebbe mai calpestato il palco a Shaftesbury Avenue a Londra pronunciando parole shakespeariane. Che non ci sarebbe mai stato un Pirandello al Piccolo. E non le importava nulla, perché amava quei visi pallidi e quei sorrisi in quelle squallide palestre.
La felicità era accettare questo, perché la felicità stava in quelle faccine portate oltre i loro confini, portate lontano dall’hinterland e per un’ora e mezza depositate in un bosco con un vecchio re rimbambito e una bomboniera di mezz’età. Era una consolazione? Piuttosto uno scopo. Se un solo bambino avesse superato i suoi limiti e vissuto sognando perché a 8 anni aveva visto la Signora del Lago in una palestra rovinata, allora ne era valsa la pena.
- Aha, e con questa spada salverò il regno! Grnf! BUM.
Risate. Quella scena funziona, una soddisfazione, l’aveva scritta lei. Ai bambini piaceva la figura del vecchio re rimbambito che inciampava e cadeva ogni 30 secondi. A questo punto ancora poco e poi in scena. Meno male, faceva freddo.
Si guardò intorno. Che posto orrendo per la prima. Una vecchia palestra anni ’60 costruita in fretta e furia con i peggiori materiali possibili, ora una triste e squallida scatola in una triste e squallida cittadina dell’hinterland milanese.
Si alzò e cominciò a sgranchirsi le gambe, non poteva mica strapparsi un muscolo con quel salto che doveva fare. Guardò irritata la spumeggiante gonna celeste e cercò di lisciarla, di farla sembrare più piatta e stretta possibile.
Avrebbe adorato questo vestito a 6 anni. Avrebbe dato ogni indumento del suo guardaroba per possedere questa magnifica celebrazione di fiocchetti e merletti. L’avrebbe amato così tanto da sentirsi male. Sua madre avrebbe potuto toglierglielo soltanto dopo che si fosse addormentata.
Ma a 40 anni, no.
Sbirciò dalla quinta e vide una fila di bambini seduti per terra a gambe incrociate. I loro visi erano pallidi, ma gli occhi scintillavano, le bocche erano aperte in grossi sorrisi a tutta dentatura e ridevano di cuore. Non poté trattenersi, sorrise. Nonostante lo stupido irritante costume da Signora del Lago, sorrise.
- Aha! Lurido mascalzone! Adesso ti uccido! Il collega attaccò un albero in cartapesta con la spada.
- È’ un albero! gridarono i bambini, è un albero, non un uomo!
La felicità è bambina, pensò. No, non è bambina. Sì ricordò una frase letta da qualche parte. La felicità è l’accettazione dei propri limiti. Sapeva perfettamente che non avrebbe mai calpestato il palco a Shaftesbury Avenue a Londra pronunciando parole shakespeariane. Che non ci sarebbe mai stato un Pirandello al Piccolo. E non le importava nulla, perché amava quei visi pallidi e quei sorrisi in quelle squallide palestre.
La felicità era accettare questo, perché la felicità stava in quelle faccine portate oltre i loro confini, portate lontano dall’hinterland e per un’ora e mezza depositate in un bosco con un vecchio re rimbambito e una bomboniera di mezz’età. Era una consolazione? Piuttosto uno scopo. Se un solo bambino avesse superato i suoi limiti e vissuto sognando perché a 8 anni aveva visto la Signora del Lago in una palestra rovinata, allora ne era valsa la pena.
Wednesday, January 2, 2008
Scoop a Baltimora
- Cara, che c’è? chiese Doug.
- E’ successo di nuovo quella cosa rispose sua moglie Jane. Quella del mese scorso.
- Ancora? Sicura?
- Sì.
Con una mano Doug tirò su le coperte per coprire il suo imbarazzo. La camicia del pigiama invece ce l’aveva ancora addosso.
Jane lisciò e sistemò la sua camicia da notte che non si era tolta.
- Ma cos’è che succede esattamente?
- Non so. Mi piace. Lo facciamo come ogni mese. Poi comincia come un solletico lì. Poi mi piace di più, e tutto d’un tratto è come l’esplosione di una bomba a mano.
- Una bomba a mano? Scusa, ma tu quando hai visto una bomba a mano? Doug era confuso.
- Ho visto un film in TV da Marjory, e c’era un soldato e ha lanciato una bomba. Santo cielo, che disordine!
- Quindi senti il disordine?
- Scusa?
- Ciò che provi è il disordine, è quello che ti piace?
- Ma santo cielo no! Non sopporto il disordine! Pensa che ieri ho aperto il cassetto delle tovaglie, e non hai idea, tutto disfatto! Niente piegato come si deve, gli orli non erano in linea! Devo proprio parlare con Betsy.
- Con Betsy? Del piacere?
- Ma no! Delle tovaglie. Le domestiche vanno tenute in riga. E’ proprio stancante.
- Cosa, il piacere?
- No, no. Le tovaglie, le domestiche. Però sì, anche il piacere. Mi viene sonno dopo. Mi sento proprio un gran sonno addosso.
Doug era preoccupato. E se ci fosse qualcosa che non andava con Jane? Poteva essere l’inizio di quella cosa di sua nonna, che si appisolava sempre e poi non capiva dove o chi era.
Doveva fare qualcosa.
E soprattutto forse non doveva più fare quella cosa una volta al mese. Sua moglie poteva ammalarsi.
Le scarpe di Dottor Stolper scricchiolavano mentre camminava su e giù davanti alla coppia seduta sul piccolo divanetto in pelle scura.
- Mi descriva ancora ciò che ha provato, signora.
- E’ come una bomba a mano.
- Proprio una bomba a mano? Non un dispositivo telecomandato? Militare o domestico? Magari un molotov?
- Ah… non saprei…
- Hmm. L’intensità di questa esplosione su una scala da 1 a 10?
- Direi 15.
- Durata? Tre minuti? Dieci minuti?
- Qualche secondo, più di 5 e meno di 15, varia.
- In base a cosa?
- In base a quanto mi piace.
Il dottore la contemplò. Poi contemplò il divano in pelle scura.
- Signora, io e i miei colleghi dovremo eseguire una lunga serie di esami invasivi. Dovrà pazientare. Mi scusi un momento.
Alzò la cornetta del telefono.
- Dottor Brody, può venire qui un momento? Ho un caso affascinante. Di grande valore scientifico. Venga. E già che c’è, chiami suo cugino, quello che fa il giornalista al Baltimora Times…
(NdA: questo racconto si base su questo pezzzo)
- E’ successo di nuovo quella cosa rispose sua moglie Jane. Quella del mese scorso.
- Ancora? Sicura?
- Sì.
Con una mano Doug tirò su le coperte per coprire il suo imbarazzo. La camicia del pigiama invece ce l’aveva ancora addosso.
Jane lisciò e sistemò la sua camicia da notte che non si era tolta.
- Ma cos’è che succede esattamente?
- Non so. Mi piace. Lo facciamo come ogni mese. Poi comincia come un solletico lì. Poi mi piace di più, e tutto d’un tratto è come l’esplosione di una bomba a mano.
- Una bomba a mano? Scusa, ma tu quando hai visto una bomba a mano? Doug era confuso.
- Ho visto un film in TV da Marjory, e c’era un soldato e ha lanciato una bomba. Santo cielo, che disordine!
- Quindi senti il disordine?
- Scusa?
- Ciò che provi è il disordine, è quello che ti piace?
- Ma santo cielo no! Non sopporto il disordine! Pensa che ieri ho aperto il cassetto delle tovaglie, e non hai idea, tutto disfatto! Niente piegato come si deve, gli orli non erano in linea! Devo proprio parlare con Betsy.
- Con Betsy? Del piacere?
- Ma no! Delle tovaglie. Le domestiche vanno tenute in riga. E’ proprio stancante.
- Cosa, il piacere?
- No, no. Le tovaglie, le domestiche. Però sì, anche il piacere. Mi viene sonno dopo. Mi sento proprio un gran sonno addosso.
Doug era preoccupato. E se ci fosse qualcosa che non andava con Jane? Poteva essere l’inizio di quella cosa di sua nonna, che si appisolava sempre e poi non capiva dove o chi era.
Doveva fare qualcosa.
E soprattutto forse non doveva più fare quella cosa una volta al mese. Sua moglie poteva ammalarsi.
Le scarpe di Dottor Stolper scricchiolavano mentre camminava su e giù davanti alla coppia seduta sul piccolo divanetto in pelle scura.
- Mi descriva ancora ciò che ha provato, signora.
- E’ come una bomba a mano.
- Proprio una bomba a mano? Non un dispositivo telecomandato? Militare o domestico? Magari un molotov?
- Ah… non saprei…
- Hmm. L’intensità di questa esplosione su una scala da 1 a 10?
- Direi 15.
- Durata? Tre minuti? Dieci minuti?
- Qualche secondo, più di 5 e meno di 15, varia.
- In base a cosa?
- In base a quanto mi piace.
Il dottore la contemplò. Poi contemplò il divano in pelle scura.
- Signora, io e i miei colleghi dovremo eseguire una lunga serie di esami invasivi. Dovrà pazientare. Mi scusi un momento.
Alzò la cornetta del telefono.
- Dottor Brody, può venire qui un momento? Ho un caso affascinante. Di grande valore scientifico. Venga. E già che c’è, chiami suo cugino, quello che fa il giornalista al Baltimora Times…
(NdA: questo racconto si base su questo pezzzo)
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