Sunday, December 7, 2008

Pranzo di Natale

Suonò il campanello.
“Ma buongiorno!” squillò la Signora Angela. “Entri! Benvenuto nella nostra modesta casa.”
Il Signor Andrea, che di cognome faceva raramente, entrò. Le sue scarpe con suole in gomma consumata facevano rumore sul parquet cerato. La Signora Angela notò che non teneva il capello attorcigliato tra le mani come i poveri che aveva visto nei fiction. Lo pregò di seguirla. Entrarono in una sala da pranzo, con lungo tavolo imbandito per le feste. Rosso, bianco, oro, cristallo, argento, nastri, fiocchi, angioletti in carta, centro tavola di gusto ineccepibile.
C’erano altre dieci persone in piedi in vari angoli della stanza rettangolare, che prendeva luce da una portafinestra. Non si vedeva il giardino per via delle tende di merletto di Burano.
“Carissimi amici,” strillò la Signora Angela, “è arrivato nostro nuovo amico… eh…”
“Andrea.”
“Oh, caro Signor Andrea, la prego, si sieda. Qui, accanto a me. Adesso le presento tutti i suoi nuovi amici. Ma non è simpatica questa idea?”
Il pranzo durò quattro ore.
La Signora Angela si sedeva raramente, nonostante la presenza della cuoca filippina e sua cugina, cooptata come cameriera per Natale. Era importante che i presepi in pasta sfoglia fossero disposti correttamente su ogni piatto, che i gamberi fossero di numero identico per tutti, che la salsina era disposta al fianco destro del pesce, che il tacchino era presentato con un numero preciso di fette di patata, e che i piselli non uscissero dai carciofi mentre erano serviti. Il sorbetto doveva essere servito toccando solo il gambo del bicchiere per non rovinare l’effetto ghiaccio sui bicchieri appena tolti dal freezer, e la fetta di torta natalizia quadrata servita con la punta in su, a rombo.
E così fu.
Tra una portata e l’altra, a turno ognuno faceva una simpatica domanda al Signor Andrea per farlo sentire a casa sua, in un posto semplice, di gente tranquilla.
“Dov’è nato?”
“Da dove viene?”
“Ha lavorato?”
“Famiglia?”
“Quali libri legge?”
“Preferisce investire in azioni o obbligazioni o ha un portfolio misto?”
A fine pasto, sul rintocco delle diciotto, il Signor Andrea ringraziò e se ne andò.
“Beh, non era male. Siamo stati bravi ad aderire all’iniziativa invita un senza tetto a pranzo, non pensate?” La Signora Angela accese una candela mangia odore dove poco prima era seduto il Signor Andrea. Si fermò un istante, si guardò in giro. “Ma santa polenta! Mi ha fregato il cucchiaino d’argento!”
Il Signor Andrea accese un mozzicone di sigaretta che trovò per terra. Girò l’angolo. Si fermò un istante, si guardò in giro.
“Ma cazzo! Mi hanno fregato la scatola!”

Wednesday, December 3, 2008

Christmas Past

Il nostro, all’epoca, i primi anni settanta, non era ancora un crimine ecologico. Andare nei boschi innevati sotto natale a cercare un pino, “il” pino, era ancora un atto retto dalla natura, un atto antico, ancestrale, atavico.

Mio padre non parlava. Cercava.

C’è un vecchio cantico di natale in inglese che celebra il buon re cecoslovacco Wenceslau: a Santo Stefano guarda fuori, e si accorge di un poveraccio infreddolito nella neve. Esce, pieno di buoni intenti, e senza dubbio un principesco pasto serale, e gli porta dei doni. Dietro di lui, fatica un piccolo paggetto. Il tenero re lo fa camminare mettendo i suoi piedini dentro le impronte reali.
Io, nel bosco dei pini nel tramonto scozzese, non mi sono persa semplicemente perché amavo quel cantico. I piedi di mio padre erano grandi, e io ero presa nel mio ruolo di paggio al seguito del re. I piedi di mio padre mi proteggevano contro ogni male, contro gli elfi, gli spiriti, le fate che mi avrebbero rapita, lasciando a mio padre un changeling, una bambina fata. Ma mio padre era più forte di loro, era enorme, e soprattutto aveva dei possenti stivali di gomma che lasciavano delle impronte importanti.

Senza quelle impronte stile re Wenceslau io mi sarei persa. Perché io possedevo una cosa unica. Una cosa incredibile. Io possedevo un paio di stivali di gomma arancione (e fin qui vi concedo il vostro non-stupore) con delle suole stampate che lasciavano sulla neve le impronte di sei tipi di uccellino. Nessun altro aveva stivali simili, e nonostante le mie ricerche, non li ho mai più trovati.
Mio padre riconosceva subito l’albero.

Al ritorno, lo trascinava, questa volta chiacchierando, raccontando di come lo avremo messo in un vaso, come lo avremo decorato. Io facevo finta di aiutare, tirando su la punta con la massima cura: la punta è fondamentale per un albero di natale. Mio padre mi lasciava fare, sapendo che reggevo invece ben poco. E io sapevo che sapeva, e mi faceva fare per gentilezza, e mi scoppiava il cuore di amore. E lui sapeva che io sapevo che sapeva, e gli scoppiava il cuore per amore. Questo però l’ho capito solo tanti anni dopo, d’estate, quando ormai ero donna, e da una stanza all’altra i nostri sguardi si sono incontrati.

Mia madre mi chiama ogni anno quando ha finito di fare l’albero, ormai un albero commerciale, ecologico, non si va più nei boschi. Io chiudo gli occhi. Cammino intorno all’albero. Piazzo i miei piedini in impronte grandi. Respiro la pulizia della neve del bosco, sento il bruciore del freddo crepuscolare. Mi sento piccola. Cerco la mano di mio padre. E la trovo. Sempre.

Monday, January 14, 2008

La Donna del Lago

La Donna del Lago, ma si può? Che ruolo stupido. Sembro una bomboniera. Ma perché non potevo fare lo Spirito della Luce? Fissò sconsolata le scarpette d’argento.

- Aha, e con questa spada salverò il regno! Grnf! BUM.

Risate. Quella scena funziona, una soddisfazione, l’aveva scritta lei. Ai bambini piaceva la figura del vecchio re rimbambito che inciampava e cadeva ogni 30 secondi. A questo punto ancora poco e poi in scena. Meno male, faceva freddo.

Si guardò intorno. Che posto orrendo per la prima. Una vecchia palestra anni ’60 costruita in fretta e furia con i peggiori materiali possibili, ora una triste e squallida scatola in una triste e squallida cittadina dell’hinterland milanese.

Si alzò e cominciò a sgranchirsi le gambe, non poteva mica strapparsi un muscolo con quel salto che doveva fare. Guardò irritata la spumeggiante gonna celeste e cercò di lisciarla, di farla sembrare più piatta e stretta possibile.

Avrebbe adorato questo vestito a 6 anni. Avrebbe dato ogni indumento del suo guardaroba per possedere questa magnifica celebrazione di fiocchetti e merletti. L’avrebbe amato così tanto da sentirsi male. Sua madre avrebbe potuto toglierglielo soltanto dopo che si fosse addormentata.

Ma a 40 anni, no.

Sbirciò dalla quinta e vide una fila di bambini seduti per terra a gambe incrociate. I loro visi erano pallidi, ma gli occhi scintillavano, le bocche erano aperte in grossi sorrisi a tutta dentatura e ridevano di cuore. Non poté trattenersi, sorrise. Nonostante lo stupido irritante costume da Signora del Lago, sorrise.

- Aha! Lurido mascalzone! Adesso ti uccido! Il collega attaccò un albero in cartapesta con la spada.
- È’ un albero! gridarono i bambini, è un albero, non un uomo!

La felicità è bambina, pensò. No, non è bambina. Sì ricordò una frase letta da qualche parte. La felicità è l’accettazione dei propri limiti. Sapeva perfettamente che non avrebbe mai calpestato il palco a Shaftesbury Avenue a Londra pronunciando parole shakespeariane. Che non ci sarebbe mai stato un Pirandello al Piccolo. E non le importava nulla, perché amava quei visi pallidi e quei sorrisi in quelle squallide palestre.

La felicità era accettare questo, perché la felicità stava in quelle faccine portate oltre i loro confini, portate lontano dall’hinterland e per un’ora e mezza depositate in un bosco con un vecchio re rimbambito e una bomboniera di mezz’età. Era una consolazione? Piuttosto uno scopo. Se un solo bambino avesse superato i suoi limiti e vissuto sognando perché a 8 anni aveva visto la Signora del Lago in una palestra rovinata, allora ne era valsa la pena.

Wednesday, January 2, 2008

Scoop a Baltimora

- Cara, che c’è? chiese Doug.
- E’ successo di nuovo quella cosa rispose sua moglie Jane. Quella del mese scorso.
- Ancora? Sicura?
- Sì.
Con una mano Doug tirò su le coperte per coprire il suo imbarazzo. La camicia del pigiama invece ce l’aveva ancora addosso.
Jane lisciò e sistemò la sua camicia da notte che non si era tolta.
- Ma cos’è che succede esattamente?
- Non so. Mi piace. Lo facciamo come ogni mese. Poi comincia come un solletico lì. Poi mi piace di più, e tutto d’un tratto è come l’esplosione di una bomba a mano.
- Una bomba a mano? Scusa, ma tu quando hai visto una bomba a mano?
Doug era confuso.
- Ho visto un film in TV da Marjory, e c’era un soldato e ha lanciato una bomba. Santo cielo, che disordine!
- Quindi senti il disordine?
- Scusa?
- Ciò che provi è il disordine, è quello che ti piace?
- Ma santo cielo no! Non sopporto il disordine! Pensa che ieri ho aperto il cassetto delle tovaglie, e non hai idea, tutto disfatto! Niente piegato come si deve, gli orli non erano in linea! Devo proprio parlare con Betsy.
- Con Betsy? Del piacere?
- Ma no! Delle tovaglie. Le domestiche vanno tenute in riga. E’ proprio stancante.
- Cosa, il piacere?
- No, no. Le tovaglie, le domestiche. Però sì, anche il piacere. Mi viene sonno dopo. Mi sento proprio un gran sonno addosso.
Doug era preoccupato. E se ci fosse qualcosa che non andava con Jane? Poteva essere l’inizio di quella cosa di sua nonna, che si appisolava sempre e poi non capiva dove o chi era.
Doveva fare qualcosa.
E soprattutto forse non doveva più fare quella cosa una volta al mese. Sua moglie poteva ammalarsi.

Le scarpe di Dottor Stolper scricchiolavano mentre camminava su e giù davanti alla coppia seduta sul piccolo divanetto in pelle scura.
- Mi descriva ancora ciò che ha provato, signora.
- E’ come una bomba a mano.
- Proprio una bomba a mano? Non un dispositivo telecomandato? Militare o domestico? Magari un molotov?
- Ah… non saprei…
- Hmm. L’intensità di questa esplosione su una scala da 1 a 10?
- Direi 15.
- Durata? Tre minuti? Dieci minuti?
- Qualche secondo, più di 5 e meno di 15, varia.
- In base a cosa?
- In base a quanto mi piace.

Il dottore la contemplò. Poi contemplò il divano in pelle scura.
- Signora, io e i miei colleghi dovremo eseguire una lunga serie di esami invasivi. Dovrà pazientare. Mi scusi un momento.
Alzò la cornetta del telefono.
- Dottor Brody, può venire qui un momento? Ho un caso affascinante. Di grande valore scientifico. Venga. E già che c’è, chiami suo cugino, quello che fa il giornalista al Baltimora Times…

(NdA: questo racconto si base su questo pezzzo)