Monday, December 31, 2007

Uno Sparo nel Buio

Ovvero come ho ucciso l’amore e partorito un mostro


Mi piaceva come mi accarezzava la testa. Mi sentivo al sicuro.

Avevamo passato la sera di Hallowe’en e le prime ore di Ognissanti nascosti dalle feste in maschera, e al contrario, ci eravamo smascherati del tutto e avevamo fatto l’amore. Più volte.

Mi piaceva il suo odore. Mi piaceva tanto. Mi piacevano le sue mani. Mi era piaciuta la conversazione con la pronuncia un po’ storpiata, essendo la mia mandibola ficcata tra la sua spalla e il suo orecchio sinistro, e il lato della sua faccia immobilizzata dal mio naso.

Di colpo mi sono sentita talmente bene che mi è venuta di dirla, quella cosa. Mi ronzava in testa da un po’. No, non la dico. Sì, devi dirla. Naah. Sì! Lui me l’aveva detto una volta, e me l’aveva scritto su un sms. Perché non fidarsi e osare? E’ ora di cominciare a scrivere il romanzo del nostro destino! Ebbene sì! E già sentivo l’abbraccio che stava per arrivarmi.

Inspirai forte.

- Che c’è? Già, lui era così sensibile che riusciva a intuire i miei stati d’animo anche dalla tensione muscolare nel buio.

- Beh…

- Beh cosa? Vuoi dire qualcosa? Dai, spara!

Ho inspirato. Ho sparato.

- Ti amo.

Silenzio. Ora erano i suoi muscoli ad essere tesi. La mano sulla mia testa si fermò. Una pausa di assorbimento.

- Non dire parolacce.

L’ho saputo subito. Non c’era bisogno di accendere la luce per controllare se avevo fatto centro, per vedere se respirava ancora, se tamponando qui e lì c’era ancora una possibilità di salvarlo.

Avevo fatto centro. Avevo sparato e avevo ucciso l’amore. Un colpo secco, al cuore. Bam. Morto.

- Mi dispiace, devo avere bevuto troppo. Non so cosa mi ha preso.

- E’ normale, sei un po’ emotiva sai, confondi la soddisfazione di una bella scopata con l’amore, mi è successo con tante donne.

Ah. Tante. Ho capito. Ora sto scavando la buca per il cadavere.

Volevo andare a casa. Riflettei un momento.

Sono le 2,30. Ho scolato quattro birre e un whisky, ed essendo la notte di Hallowe’en i vigili saranno un po’ più vigili del solito. Se mi vesto ora, se esco da questo bel letto caldo e vado a casa nel freddo rischio di fare un incidente e ammazzare qualcuno. O peggio ancora farmi togliere la patente.

Ragionando un momento sulla validità di quest’ultimo pensiero, trovai che forse non ero del tutto nelle condizioni psico-fisiche per andare a casa. Meglio restare. Annusai nel buio. Anche se avevo appena ucciso l’amore, sapeva ancora di buono. Decisamente. Allungai la mano. E per la prima volta in vita mia non ho fatto l’amore.

Ho scopato.

Avanti il prossimo!

Giallo

Non c’era scompiglio particolare tra i colori il giorno che rubarono la “i” al giallo. Il giallo era un colore talmente gaio e solare e brillante che tutti pensarono fosse soltanto una tipica dimenticanza di un colore così brillante, che male si adattava ai dettagli. Dopotutto, non era mai stato sbiadito, e così, senza la “i”, era soltanto sbadato, niente di più facile.

Ma dopo due giorni, i colori non reggevano più la situazione. Il giallo senza la sua “i” era diventato un gallo, e cantava e si vantava tutto il giorno. Dall’alba, quando il canto era particolarmente acuto e doloroso alle orecchie sonnolente degli altri colori, che pian piano si accendevano, fino alla sera quando, esausto, i suoi toni erano diventati rauchi e insopportabili.

Ma fu soltanto il terzo giorno che i colori si resero conto che non c’entrava nulla il giallo, ora gallo, ma che c’era stato senz’altro un furto. Perché il povero viola era stato pure lui derubato dalla sua “i”, e senza non riusciva a rimanere per terra da bravo colore posato e dignitoso, ma tutti, guardandolo, esclamavano stupiti “vola”! Ed era chiaro che il chiaro, anche lui monco della sua “i”, non poté più esserlo, e questo lasciava tutto il lavoro al povero scuro, e il mondo dei colori si incupì e si rattristò.

I colori primari ora erano soltanto due, e senza il giallo, ora gallo, non riuscirono a compiere più i loro splendidi giochi cromatici. L’arancione si spegneva, perché il povero rosso senza il compagno giallo non poté crearlo. Il verde pian piano scompariva, lasciando il blu solo con il rosso a creare soltanto il viola (che ora vola, e sparisce all’orizzonte).

Era una situazione disastrosa. Era l’apocalisse tonale. L’Armageddon cromatico.

Finché un giorno, misteriosamente, il gallo si svegliò, aprì il becco per cantare, e non uscì che un brillante e caloroso raggio di sole. Il bagliore e il caldo svegliarono gli altri colori, ormai tutti quasi spenti del tutto, e videro con meraviglia che la “i” era tornata al suo posto.

“I!” esclamò il rosso. “Ma dove sei stata? Stai bene? Ti hanno fatto male?”

“Sto bene, caro rosso,” rispose la “i”, “e nessuno mi ha fatto male. Ero un po’ stufa di stare qui, sempre al secondo posto dopo la “g”, e volevo mettermi nel “va” per poi andare “via”. Ho visto tante cose ma poi mi siete mancati e sono tornata.”

“Cara “g”,” disse il rosso rivolgendosi verso la lettera comodamente seduta sulla sua bella coda imbottita (l’invidia della “p” e la “y”), “ma cos’hai fatto alla “i” per farla scappare da questo colore?”

“Ah non lo so,” rispose la “g”. “È un giallo.”

Due Monete

In qualche momento, da qualche parte, ho sbagliato pensò Federica.

Guardò schifata l’animale davanti a sé.

E’ venerdì sera, il Prof è fuori con gli altri e io sto copulando con una rana. Non è normale.

Guardò di nuovo la rana e osservò i cambiamenti nella velocità dei suoi movimenti.

Ecco, una persona normale che conduce un esperimento scientifico in una facoltà universitaria il venerdì sera avrebbe la possibilità di annotare le sue osservazioni e io devo tenerle in testa perché le dita le devo tenere dentro questa bestia. Ho cannato alla grande.

Federica era depressa.

Mesi e mesi a correre dietro il Prof, scapolo d’oro dell’università, scapolo che aveva caldamente raccomandato la sua iscrizione alla specializzazione in psicologia animale, che aveva caldamente tifato per una tesi sul ciclo riproduttivo del rospo, che l’aveva caldamente fissata negli occhi più volte.

O no?

Non mi piacciono nemmeno gli animali disse Federica ad alta voce, sperando in una qualche grata consolazione dalla bestiola davanti a lei.

- Sarebbe meglio un caffè?

Il bidello era alla porta. Sorriso divertito ma occhi gentili.

- Oh, beh, certo più di questa bestia, disse Federica notando per la prima volta che era alto. Notò anche che non ci aveva mai pensato.

- Ne trova una ogni anno per fare questi studi qui. Poi pubblica citandola con un breve ringraziamento in un’annotazione in un font microscopico. L’anno scorso ha avuto fondi ministeriali con Fattori meteorologici nello stimolo alla riproduzione nella pantegana. Non so come quella abbia fatto a resistere. Bel pezzo però.

- Lei legge?
Federica era curiosa.

- Parecchio, non ho potuto finire gli studi in maniera formale, ma si ha un sacco di contatti utili in questo lavoro. Sa, quando viene un professore da fuori alla fine sono io che ci parlo, che sistemo lo schermo per il Powerpoint, che faccio il check del microfono. Ho la possibilità di fare tutte le domande del caso, con calma, voi invece no, siete soltanto una moltitudine.

- Senta, ma ha visto la Professoressa Macchi il mese scorso?

- Neuropsichiatria infantile? Patologie schizoidi nel preadolescente?

- Sì, cosa ne dici?

- Affascinante, certamente fa un buco grosso come un cratere nelle teorie del Dottor Cenci.

- Ecco, l’ho pensato anch’io, ma non ho capito molto bene la parte in cui dice che il ritiro dal mondo sarebbe invece una specie di narcisismo.

- Allora è così… ma quel caffè lo vuole o no? Andiamo alla macchinetta?

- Non ho moneta.

- Senta, due monete le ho io. Dai, andiamo.

- Buona sera cara.
Federica salutò la rana, riponendola nella sua scatola. E’ stato bello ma mi sa che questa volta è addio.